L’umanità contro il vaiolo

L’UMANITÀ CONTRO IL VAIOLO
Riflessioni su una tecnica e sulla Tecnica

L’eradicazione del vaiolo viene ufficializzata dall’OMS nel 1977 a seguito di una campagna vaccinale senza precedenti. In campo medico questo evento è forse uno dei contributi maggiori all’immaginario di una Tecnica in grado di risolvere tutti i problemi dell’umanità, finanche sconfiggere la morte stessa. Ogni mito però parte da un barlume di verità e che le vaccinazioni abbiano permesso alla biomedicina di stravolgere radicalmente l’equilibrio fra umanità e patogeni, dotando la prima di strumenti capaci di ridurre di molto la mortalità, soprattutto infantile, è un dato oggettivo. Ma oltre a ciò ci potremmo chiedere: quest’innovazione medica come si è affermata, e cosa ha significato in termini sociali per le popolazioni che ne hanno incrociato la strada?

Il vaiolo

Lo scenario in cui va inserito l’avvento del primo vaccino è quello dell’Europa del XVIII secolo. Qui il vaiolo divampa producendo una mortalità crescente. Le epidemie, sebbene localizzate e mai pandemiche, si susseguono con frequenza e regolarità, portandosi via un neonato su cinque. Il tasso di mortalità una volta infettati è dell’80% nei bambini e del 20-60% negli adulti1.

Ma cos’è, anzi cos’è stato, il vaiolo e perché proprio allora stava diventando un problema?

Il vaiolo è una malattia infettiva virale, causata dal variola virus. Accompagnava l’umanità dalla culla delle prime civiltà, probabilmente dall’epoca della sedentarizzazione e dei primi inurbamenti. Nelle zone della sua tradizionale presenza aveva ormai da qualche secolo (nell’Europa latina almeno dal X sec.) acquisito un carattere endemico: il virus era ben radicato presso popolazioni sufficientemente vaste da garantirne la continua riproduzione.

Essendone immuni tutti coloro che sopravvivevano all’infezione, era una malattia principalmente infantile, che solo occasionalmente si manifestava con ondate epidemiche capaci di mettere a repentaglio la popolazione adulta e che, per la sufficiente densità demografica delle comunità colpite, non estinguevano le globali e successive possibilità riproduttive del virus.

Il quadro delineato subisce tuttavia un drastico cambiamento nel XVI secolo. È allora che il protagonismo di questa malattia diventa sempre maggiore e le sue epidemie sempre più ravvicinate e violente. Se da una parte questo va forse imputato alle mutazioni tipiche dei virus, è chiaro che alcuni mutamenti sociali intervennero come causa diretta. L’Europa dell’affermazione degli Stati nazione è un’Europa di guerre e di frenetiche attività militari, di spostamenti di masse in armi, di saccheggi, di diffusione di malattie. A questo vanno aggiunte le avventure geografico-coloniali, che contribuiranno da qui in avanti a esportare malattie infettive presso popolazioni che ne ignoravano l’esistenza e che da esse vennero letteralmente falcidiate.

In quei secoli va poi affermandosi un nuovo sistema economico, il modo di produzione capitalistico. L’aumento della produzione, a cui seguì un’espansione demografica senza precedenti e il processo di urbanizzazione e progressiva concentrazione della forza lavoro sfruttata nei centri urbani in espansione, sono fenomeni essenziali per spiegare il divampare di una malattia che proprio nelle masse umane in crescita trovava il suo ideale terreno di coltura. Si consideri infatti che attaccando il virus soggetti sprovvisti delle difese immunitarie specifiche, solo in una popolazione in espansione poteva trovare terreno fertile per una tale proliferazione.

La Gran Bretagna, patria del primo vaccino, è proprio il luogo di massima espressione delle dinamiche socio-economiche appena descritte e uno dei Paesi in cui il vaiolo infuria con più ferocia. Un Paese in piena espansione economica, il cui motore era una popolazione continuamente in balia di un male pressoché incurabile.

Nel 1797 Edward Jenner inventa il primo vaccino. Quest’idea, così comune e consueta, merita una serie di precisazioni. Va precisato che Jenner non inventò nulla di realmente nuovo, ma semplicemente sviluppò una tecnica già nota in Europa da almeno un secolo, e altrove da molto di più: la variolizzazione, ovvero l’inoculazione preventiva di vaiolo a scopo immunitario.

Variolizzazione, vaccinazione e opposizione

La variolizzazione, o inoculazione del vaiolo, è una pratica dalle origini piuttosto indefinite. Sappiamo che nacque probabilmente in modo autonomo in India e in Cina. Se una datazione precisa risulta impossibile si può azzardare a dire che dal XV secolo in entrambe le regioni era conosciuta e praticata. In Cina si faceva inalare del materiale infetto, avvicinando o introducendo nelle narici una specie di tampone nasale. In India invece l’applicazione avveniva effettuando una piccola scarificazione cutanea nella spalla o nell’avambraccio. Il materiale infetto era precedentemente prelevato da una persona malata di una forma lieve di vaiolo (variola minor o alastrim) e veniva applicato ad una persona sana, allo scopo di farne acquisire immunità. Era una pratica assolutamente empirica, basata sull’osservazione dell’immunità acquisita da chi sopravviveva all’infezione e che non teneva in considerazioni teorie batteriche, o della nozione di cosa fosse un virus, entrambe ancora da venire. Localmente, e questo fu ancor più vero con la sua diffusione, la variolizzazione aveva varianti leggermente diverse sulle modalità di applicazione, sulla natura del materiale inoculato, la sua conservazione e sul contesto sociale e rituale in cui era eseguita. A differenza dei vaccini successivi non si trattava di un virus indebolito, né di un virus simile, ma dello stesso variola virus, selezionato e gestito (la conservazione prolungata poteva attenuarne la virulenza), affinché avesse una carica virale più bassa. Il soggetto si ammalava effettivamente di vaiolo e per il tempo della sua degenza era infetto come ogni altro malato, contraendo però una forma più lieve, con gli esantemi tipici della malattia localizzati alla sola zona di inoculazione. La sottovalutazione di questa contagiosità fu sicuramente, in più luoghi, all’origine di vere e proprie epidemie. La quarantena a seguito dell’inoculazione fu infatti una pratica variamente diffusa e codificata.

I tassi di mortalità legati alla variolizzazione erano dell’1-3%, quindi assolutamente ridotti rispetto a quelli del vaiolo. A differenza del vaccino inoltre non era una semplice azione di profilassi, ma un qualcosa di più simile a una terapia. L’oggetto dell’inoculazione non era un’intera popolazione da immunizzare, ma un individuo che decideva di sottoporvisi e che, sulla base dei principi della cosiddetta medicina umorale, sottostava a un regime alimentare ben preciso prima dell’intervento, affinché il successo dello stesso ne venisse agevolato. Ovviamente le prescrizioni terapeutiche variavano da luogo a luogo.

Sul caso indiano vale sicuramente spendere qualche parola. La pratica della variolizzazione (tika), era inserita nel sistema di credenze induiste, accompagnata da rituali prima, durante e dopo la sua applicazione, connessa a una divinità ben precisa, Sitala, dea del vaiolo; praticata da un gruppo sociale ben preciso, dei bramini itineranti, che data la prossimità con i fluidi corporei che implicava l’esercizio di questa pratica non rivestivano un altissimo rango sociale. Senza entrare ulteriormente nel merito di una pratica inserita in una concezione della malattia ben differente da quella della biomedicina e assai complessa, questi pochi elementi possono già dare l’idea di come essa fosse socialmente riconosciuta, accessibile e inquadrata in una cultura condivisa: rispondeva alla concezione locale di cosa fosse una protezione effettiva e non solo nel senso immunologico del termine.

Inoltre, se e quando praticata diffusamente, si era dimostrata piuttosto efficace nel contenimento della malattia. In certi periodi documentabili, nelle zone del Bengala, dove la variolizzazione era ampiamente praticata, l’81% della popolazione ne era raggiunto. Le prime campagne vaccinali britanniche dello stesso periodo, sui territori indiani dove ebbero maggior successo, raggiunsero pressoché gli stessi risultati di diffusione (80%), ma con metodi decisamente più invasivi.

Non è quindi un caso che in certe zone, la proposta prima e l’imposizione poi, della pratica vaccinale da parte del dominatore britannico furono disertate e trovarono ampia opposizione.

Nel 1802 i britannici iniziano le prime campagne di vaccinazione di massa in India. Dopo aver impiegato loro stessi la variolizzazione, soprattutto nelle regioni dove essa non era diffusa, i medici militari passarono alle innovazioni europee2. Il vaccino era indubbiamente più efficace e meno pericoloso, con tassi di mortalità ridotti allo 0,1% e una non trasmissibilità del virus inoculato. Il vaccino britannico trovò però ampia opposizione, soprattutto nei territori dove la variolizzazione era ben radicata: chi avrebbe preferito rinunciare ad una pratica dotata di un senso più completo e già ampiamente accessibile a favore della controproposta di un dominatore straniero verso cui si nutriva una comprensibile diffidenza? Inoltre sia per le difficoltà di approvvigionamento dalla madrepatria, sia per la sua ridotta efficacia in un ambiente climaticamente diverso dall’Europa, il vaccino non era una controproposta ancora così competitiva e credibile. Nel 1850 in India la variolizzazione verrà resa illegale e la vaccinazione obbligatoria. Ciò non impedì agli inoculatori di continuare a praticare e agli indiani di disertare la profilassi. Una situazione che rimase costante fino al 1970.

Vale adesso entrare nel merito di come e quanto fosse diffusa questa pratica in Europa e di come si inserisca nella storia delle prime vaccinazioni.

La figura che tradizionalmente viene accostata all’introduzione in Europa della tecnica di inoculazione del vaiolo è Lady Wortley Montagu, moglie dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli. Apprese la tecnica presso la capitale ottomana e decise di applicarla sui suoi stessi figli. Nel 1721, tornata in Inghilterra, promosse e divulgò l’uso di tale pratica.

In realtà, in Europa se vogliamo scovarne i primi probabili utilizzatori dovremmo cercare nelle campagne greche, polacche, gallesi e francesi nel 1600. La diffusione della pratica derivò probabilmente dal mondo arabo e come per molte altre regioni in cui si stabilì fu la conseguenza diretta della necessità di far fronte all’aumentare delle epidemie.

Ad ogni modo furono gli anni’20 del Settecento il periodo in cui la variolizzazione divenne oggetto di dominio pubblico in Europa. Dopo una prima sperimentazione sui detenuti delle galere britanniche per mano del dottor Hans Sloane della Royal Society di Londra, il suo impiego venne esteso alle famiglie aristocratiche, terrorizzate da una malattia che scalava sempre più le gerarchie sociali. Fu però negli anni ‘40 dello stesso secolo che si assiste a un cambiamento di passo decisivo, che mette in luce passaggi storico-politici che determinano l’andamento per i secoli a venire.

Le epidemie locali di vaiolo erano un problema principalmente rurale. Le grandi città erano un serbatoio inesauribile per l’infezione, in esse il virus era endemico, la malattia era soprattutto infantile e la maggior parte della popolazione adulta aveva – costretta a sopravvivere in un ambiente tanto insalubre– gli anticorpi necessari per non contrarre il virus. Le piccole comunità rurali erano invece ambienti più vulnerabili, lì il vaiolo trovava una popolazione immunitariamente sguarnita e si manifestava dunque periodicamente in forma epidemica, colpendo bambini e adulti indistintamente, esaurendosi e lasciando in vita troppe poche persone affinché si costituisse una cosiddetta immunità di gregge. Lo stesso principio lo si può trovare presso le comunità coloniali britanniche in Nord America. Anche qui il vaiolo non si stabilì mai in forma endemica, gli aggregati urbani dei coloni erano troppo poco numerosi perché il virus, dopo una manifestazione epidemica potesse continuare a circolare in forma endemica fra la popolazione, la demografia umana non consentiva un’ecologia dove il vaiolo avesse un posto stabile. Ed è proprio proprio per tutelarsi da simili epidemie che nei porti nord americani si fece ampio utilizzo della quarantena delle navi che arrivavano dalla madrepatria e non solo.

Ma torniamo alle campagne inglesi. Qui un’epidemia di vaiolo poteva diventare un disastro sociale, portandosi con sé buona parte della popolazione produttiva e distruggendo così intere comunità. Il rischio più grande che un giovane adulto delle campagne aveva emigrando in città o spostandovisi per lavorare e commerciare era proprio quello di contrarre il vaiolo, di diffonderlo nella sua comunità e di morirne.

Gli anni ‘40 del ‘700 furono il momento in cui lo Stato britannico decise di agire in prima persona di fronte a simili sciagure. Non lo fece per spirito d’umanità, ma per necessità produttive impellenti. La circolazione della malattia andava arrestata e le campagne erano un acceleratore notevole della sua diffusione. Non solo, la falcidiazione della popolazione rischiava di essere un ostacolo decisivo ai cicli produttivi del nascente capitalismo industriale, così pure gli approvvigionamenti delle città in espansione che le campagne garantivano non potevano vivere nell’incertezza delle epidemie.

Spogliata la pratica della variolizzazione di tutti i suoi orpelli rituali e sociali se ne fa una tecnica, oggetto di discussioni accademiche e di una promozione, per la prima volta nella sua storia, su una scala di massa a iniziativa dello Stato. Come visto, la variolizzazione era altrove una pratica individualizzata e, anche laddove risultava più diffusa, non aveva come intento una profilassi generalizzata. Non era interesse, né era nelle possibilità, di alcuna istituzione tradizionale riuscire in un’azione di tal genere. Attraverso quella che può definirsi una prima sorta di iniziativa di pubblica sanità, lo Stato inizia a definire l’oggetto di interesse di una forma di potere nuova, la popolazione tutta e i suoi corpi, intraprendendo un’azione a tutti gli effetti biopolitica, i cui obiettivi erano adeguare la popolazione a un ambiente e alle esigenze produttive che imponeva. La popolazione dev’essere sana, anzi biologicamente adeguata è forse più corretto a dirsi, affinché sia potenzialmente produttiva nella filiera di accumulazione del valore, dalle campagne, alle manifatture, alle industrie.

Non è un caso che i primi contesti in cui le tecniche di profilassi divennero obbligatorie furono gli eserciti. Nel 1776-77 Washington decise di variolizzare l’esercito continentale. Nel 1805 Napoleone prese la stessa decisione per le sue truppe, anche se al posto della variolizzazione si servì dell’ormai nota vaccinazione. Erano entrambi perfettamente consapevoli di come certi agenti patogeni potessero determinare la compromissione o addirittura la disfatta di intere campagne militari. Washington sapeva bene che l’esercito americano era, per i motivi sopra accennati, più vulnerabile al vaiolo di quello britannico. Napoleone invece aveva già sperimentato in Egitto fra il 1798 e il 1801 a cura di peste e dissenteria quanto i parassiti potessero essere deleteri per le aspirazioni militari. Storicamente questo è forse il primo passaggio di un’applicazione sanitaria obbligatoria di massa. Ma non rimarrà a lungo un fatto isolato. In ogni caso ci permette di cogliere l’essenza di simili pratiche di immunizzazione di massa che fanno il paio con quanto detto per le campagne inglesi.

Negli anni del passaggio da una tecnica all’altra più che la tecnica stessa è chi la controlla che ne determina la natura. La variolizzazione per circa mezzo secolo diventa una tecnica diffusa e a tutti gli effetti inserita fra gli strumenti della medicina scientifica occidentale. Non è liberamente esercitabile, chi la pratica deve essere formato e abilitato, nascono dispute accademiche su come sia ottimale realizzarla e progressivamente è resa una tecnica nel senso puro del termine, spogliata da ogni suo orpello comunitario, estetico, spirituale, sempre più ripulita di ogni considerazione umorale, un mezzo efficace e puntuale insomma. Il processo di tecnicizzazione della pratica inoculatoria si avvia, ma non senza intoppi. Nella praticità delle cose variolizzare era un qualcosa di teoricamente ben accessibile ancora a molte persone, nei mezzi e nei saperi necessari a esercitarla. Nelle campagne e non solo infatti di abusivi ne circolavano, dando l’impressione di una pratica che in certe zone si manteneva popolare e che figure, come i preti ad esempio, la praticassero senza licenza fra la popolazione, anche in Italia.

Vaccino

Nel 1797 Edward Jenner inventa il primo vaccino. Jenner si inserisce in un filone di ricerca al tempo già ampiamente battuta, con sperimentazioni già tentate sul vaiolo bovino. Egli tuttavia avrà il merito di dimostrare scientificamente che l’infezione da vaiolo bovino proteggeva dal virus del vaiolo umano, l’immunità crociata insomma. La vaccinazione jenneriana non è altro che questo: inoculazione di vaiolo bovino per immunizzarsi da quello umano con modalità simili alla tradizionale variolizzazione attraverso scarificazione già praticata in Europa.

Da qui innanzi il vaccino si diffonde. Le prime campagne di sanità pubblica della storia saranno legate proprio alla sua promozione. Queste inoculazioni avevano tutti i limiti della conservazione e del trasporto del materiale vaccinale, tanto che in buona parte venivano effettuate “da braccio a braccio”, producendo catene infettive che portassero il materiale vaccino da un soggetto all’altro. Che queste modalità, sebbene le più rapide e diffuse, potessero produrre infezioni generalizzate da altri patogeni, come la sifilide, l’erisipela o l’epatite B, fu un dato di cui ci si accorse solo successivamente.

Al di là delle tecniche vaccinali, che di qui in avanti andarono progredendo quel che interessa è il passaggio alla loro obbligatorietà. In Inghilterra con i Vaccination Act del 1840, 41 e 53 la vaccinazione diventa dapprima universale, libera, gratuita e infine obbligatoria. Con quelli del 1867 e 71 i genitori divennero oggetto di sanzione amministrativa e poi penale nel caso non sottoponessero i figli alla vaccinazione. Le leggi di imposizione vaccinale si diffusero in tutta Europa nel XIX sec. Parallelamente a questo, come si è visto per l’India, la variolizzazione venne bandita e tacciata, al di là del suo impiego passato, come una superstizione.

La tecnica della vaccinazione jenneriana aprì un campo di studi innovativo per la scienza moderna, cui si aggiunsero le innovazioni teoriche di Pasteur sulla natura batterica delle malattie. Da qui in avanti la tecnica si aliena sempre più, il suo controllo va riservandosi a una nicchia sempre più ristretta di esperti e amministratori.

Il passaggio da una pratica come la variolizzazione alla tecnica della vaccinazione è un momento storico che evidenzia delle dinamiche politiche che si verificano ogniqualvolta una nuova innovazione tecnologica ci piomba addosso, pretendendo di risolvere un problema che lo stesso sviluppo industriale ha contribuito a generare. L’attuale pandemia, le risposte messe in campo e gli obiettivi che perseguono sono in buona parte una loro riaffermazione.

Se in un primo momento, di fronte a epidemie fuori controllo gli Stati ricorsero alla messa a regime dei saperi popolari, come successo per la variolizzazione, in un secondo momento, quando soluzioni tecniche più efficaci diventano disponibili le vecchie pratiche vengono messe al bando. La vaccinazione oltre agli indubbi vantaggi pratici inerenti la minor mortalità e l’assenza di contagio a seguito dell’inoculazione, aveva una possibilità di controllo maggiore. I preparati, dapprima rozzi, poi sempre più elaborati, erano direttamente nelle mani delle agenzie statali, dei medici e delle aziende produttrici, non erano più liberamente accessibili alla popolazione, che anche volendo far da sé non avrebbe potuto. Il sapere popolare è espropriato, delegittimato e infine sostituito con un sapere alienato, assolutamente inaccessibile alle persone su cui poi verrà applicato, anche a mezzo imposizione.

Come detto, la domanda da farsi è chi controlla una certa tecnica? A cui segue, una certa tecnica da chi è controllabile? Se nel caso della variolizzazione di Stato e delle prime campagne vaccinali il suo controllo era determinato dalla volontà dell’istituzione. Nel caso ad esempio degli odierni vaccini geneticamente ingegnerizzati ciò non è pi nemmeno necessario. La sua complessità è l’origine stessa dell’inaccessibilità per gli individui che vi si sottoporranno. Essa diventa così uno smisurato strumento di potere nelle mani dei pochi che hanno le risorse per controllarla.

La domanda da farsi di fronte all’innovazione tecnologica, prima di valutarne i benefici qui e ora, è forse: ne è possibile l’autogestione? Una piccola comunità di persone sarebbe in grado di garantire la sua produzione, conservazione, gestione, smaltimento sulla base dei criteri da lei scelti, escludendo che nella filiera in questione esistano momenti di sfruttamento? Per gli attuali vaccini pare evidente, visti i finanziamenti messi in campo per la loro produzione e i laboratori da cui escono fuori, che la risposta sia negativa.

Non si tratta di recuperare strumenti di una volta per risolvere problemi attuali, per cui per altro non sono stati affatto pensati, ma di individuare nello spirito con cui venivano gestiti, soluzioni a problemi impellenti dei nostri giorni, per provare a rispondere alla domanda principale che questi tempi ci impongono: di fronte a ciò che sta accadendo senza Stato come si fa?

Non si tratta di coerenza, ma di immaginare un mondo diverso che, partendo dalle macerie di quello che avremo auspicabilmente distrutto, andrà costruito.

Bibliografia:

McNeil, Plagues and Peoples

Farolfi, Facinorosi pontifici

Fenner, Smallpox and its eradication

Brimnes, Variolation, Vaccination and Popular Resistance in Early Colonial South India

Apffell Marglin, Smallpox in two system of knowledge

NOTE

1. I tassi di mortalità dipendono dalle regioni e dai momenti storici in cui si scatenò una particolare epidemia e da fattori di natura sociale, climatica, virologica, ecc. che ne determinarono le peculiarità.

2. Si consideri che questa pratica era eseguita da medici europei o inoculatori debitamente formati e certificati dall’autorità coloniale. Ciò che la variolizzazione britannica e la tika condividevano era giusto il principio dell’inoculazione, nulla di più. I britannici eseguivano una pratica che che controllavano del tutto dall’inizio alla fine e in cui la partecipazione della popolazione era ininfluente e doveva limitarsi alla ricezione.